di Leonardo Alfatti Appetiti
“El Perú està calato”, il Perù è nudo. Questo è il titolo che, 5 anni fa, i ricercatori peruviani Andrea Stiglich e Carlos Ganoza diedero al loro libro-indagine riguardo le (evidenti) problematiche che il sistema liberale avrebbe dovuto risolvere per sopravvivere nel paese latinoamericano. Dal 2016 ad oggi non è cambiato molto e con l’onda d’urto della pandemia domenica 6 giugno il modello economico liberista è a rischio sul serio in Perù. Pedro Castillo, il vincitore del primo turno, è uomo-immagine della sinistra radicale più anacronistica possibile forse, il chavismo. Non che l’alternativa sia un’assoluta garanzia per la democrazia, sia chiaro. L’altro candidato che correrà per la carica di presidente è infatti Keiko Fijimori, figlia dell’ex autocrate Alberto Fijimori che convertì il paese al liberismo economico negli anni 90, ma che si rese protagonista di gravi violazioni dei diritti umani commissionando omicidi, rapimenti e sterilizzazioni forzate, per le quali adesso è in carcere. Keiko ha raccolto l’eredità politica del padre e, dopo aver perso per 2 volte il ballottaggio contro candidati di destra, quest’anno potrebbe vincere proprio grazie ai voti della destra antifijimorista che non voterebbe mai Castillo, un chavista.
Un ballottaggio altamente polarizzato e inedito il cui verdetto non è facile da prevedere. Per cercare di capire meglio come si è arrivati a questa situazione abbiamo chiesto al sociologo e docente universitario peruviano Josef Zielinsky Flores di toglierci alcuni dubbi.
Professore, dopo più di 30 anni il Presidente peruviano potrebbe non essere un liberale, ma un comunista. È testimonianza del fallimento del sistema attuale?
«In Perù si è verificata la situazione della “crescita infelice”. Il sistema liberale da una parte ha avuto un grande successo,basti pensare che nel 1990 2 peruviani su 3 erano sotto la soglia di povertà mentre nel 2019 solamente 1 su 5 lo era, ma dall’altra parte non ha risolto il problema delle disuguaglianze. Il vero problema che abbiamo qui è l’inclusione, non è il modello economico. Prima della pandemia il 70% della popolazione attiva era dentro l’economia informale e si sentiva tagliata fuori da tutta una serie di vantaggi riservati a chi partecipava all’economia formale. Ci sarebbe stato bisogno di una riforma strutturale per consolidare il modello, mi riferisco in particolare al rafforzamento delle istituzioni e alla fornitura di servizi pubblici adeguati. I politici peruviani non sono stati capaci di placare i conflitti sociali e la politica è diventata solo un mezzo per amministrare il potere. Questa situazione, unita alla crisi profonda generata dalla pandemia che ha fatto schizzare di 10 punti la povertà, ha lasciato una grande fetta della popolazione con un desiderio di “revanchismo” verso la classe politica attuale. Inoltre, la frammentazione della sinistra ha lasciato campo aperto a un candidato radicale, Pedro Castillo, che ha saputo intercettare le frustrazioni di parte della popolazione, ma che non ha vere proposte.»
Quindi è un voto più di protesta che comunista? Non c’entra l’influenza del Venezuela, ultima roccaforte della rivoluzione bolivariana, lanciata da Hugo Chavez, oggi nelle mani di Maduro?
«La mano del chavismo si vede nelle proteste di quest’anno in Colombia, in quelle dell’anno scorso in Cile e nella polarizzazione a cui assistiamo oggi in Perù. Castillo non ha incontrato personaggi legati a quell’ambiente, ma Vladimir Cerrón, il presidente di Perú Libre, il suo partito, si è riunito personalmente con Maduro e molti parlamentari di Perú Libre sono sotto indagine per relazioni con associazioni eredi di Sendero Luminoso, un gruppo terroristico di stampo marxista. Ad ogni modo, considerando anche il quasi milione di profughi venezuelani fuggiti in Perù, non penso che il chavismo abbia molta presa tra i peruviani. Se Castillo vincerà le elezioni credo che non sarà tanto per meriti suoi ma per la forza dell’antifujimorismo, diffuso in tutto il paese, e per la crisi economica in corso. Il momento del voto dovrebbe essere razionale, ma spesso è emotivo.»
Domenica capiremo se è più forte l’antifijimorismo o l’anticomunismo tra i cittadini peruviani quindi?
«Sì, un anticomunismo molto diffuso nella capitale, Lima, e nel nord del Perù, le zone più sviluppate del Paese che hanno tratto più benefici dal sistema economico liberista, e un antifujimorismo più trasversale ma più intenso nelle zone più povere come la Sierra Central e la Sierra Sur, bacino di voti per Castillo. Il Perù è fortemente diviso al suo interno e la colpa si trova nella politica. I governatori delle Sierra, che hanno tendenze di sinistra, non sono stati in grado di convertire il denaro prodotto dalla ricchezza minerale in servizi per i cittadini, soprattutto in ambito sanitario e scolastico. Poiché “El éxito tiene muchos padres, pero el fracaso es huérfano”, (Il successo ha molti padri, ma il fallimento è orfano) i governatori di queste zone hanno scaricato le proprie responsabilità sul governo centrale creando così una falsa percezione e inducendo molti cittadini a credere che le proprie disgrazie siano colpa di Lima. C’è molta aggressività, la peculiarità di queste elezioni è che abbiamo due blocchi all’estremo opposto frutto di una polarizzazione voluta da entrambe le parti a forza di campagne elettorali violente e menzognere.»
Aspettiamo con trepidazione il vincitore di domenica.