Dopo anni di scioperi spesso percepiti come strumentali e una linea sindacale che ha progressivamente perso contatto con le reali esigenze del mondo del lavoro, Maurizio Landini sembra aver esaurito il proprio spazio politico e simbolico. Il recente referendum – disertato in massa dagli italiani – ha rappresentato non solo un fallimento strategico, ma un vero e proprio benservito da parte di un Paese che si è stancato della retorica sterile e delle battaglie ideologiche fini a sé stesse.
Un leader che voleva essere altro. Landini non ha mai nascosto le proprie ambizioni politiche. Da tempo coltivava il sogno di ergersi a figura di riferimento per una sinistra dispersa, in cerca di identità e direzione. Ma l’ex segretario della CGIL ha confuso l’attivismo con il consenso, lo scontro permanente con la leadership, e l’opposizione cieca con la proposta costruttiva.
Invece di interpretare il cambiamento del mondo del lavoro – segnato dalla digitalizzazione, dal precariato diffuso, dall’autonomia crescente di tanti lavoratori – Landini ha continuato a proporre ricette novecentesche, fatte di slogan e barricate. Il risultato? Una distanza crescente tra il sindacato e la base che avrebbe dovuto rappresentare.
Il referendum sostenuto dalla CGIL avrebbe potuto essere un’occasione per riportare al centro dell’agenda pubblica i temi del lavoro. Ma si è trasformato in un boomerang: l’astensione di massa è stata un giudizio impietoso non solo sulla proposta, ma sul proponente. Gli italiani non hanno voluto prestarsi all’ennesima battaglia ideologica lanciata dall’alto, lontana dai problemi reali e quotidiani.
Il peso della coerenza (o della sua assenza). Ciò che ha definitivamente eroso la credibilità di Landini non è solo la linea politica, ma l’incapacità di evolversi. In un’epoca che chiede pragmatismo, visione e capacità di dialogo, ha continuato a parlare la lingua del conflitto permanente. Anche a costo di isolarsi non solo dal mondo imprenditoriale, ma dagli stessi lavoratori che un tempo applaudivano i suoi comizi.
La storia di Landini è, in fondo, il simbolo di un’intera fase del sindacalismo italiano: forte di una tradizione, ma debole nell’innovazione. Con il referendum fallito, si chiude un capitolo. E lo si fa con un verdetto silenzioso ma definitivo: quello di un Paese che ha scelto di voltare pagina, lasciandosi alle spalle chi ha confuso la difesa dei diritti con la difesa di una poltrona.
Il tramonto di Landini non è solo la fine di una carriera politica mai veramente decollata. È la conferma che, oggi, la rappresentanza richiede molto di più di una voce forte: servono idee nuove, ascolto vero e capacità di unire, non di dividere.